Tag: crescere
Mar
25
Giu
2019
Sono stufa
Sono stufa della gente che non sa fare i conti con le proprie scelte e che incolpa gli altri per la vita che si ritrova. Oltretutto in genere queste persone sono anche quelle più capricciose e viziate e che non si rendono neanche conto dicome vivo quelli intorno a loro. Ma crescete cazzo!
Gio
27
Dic
2018
Uffa
Oh che noia! perché ci metto cosi tanto a crescere?io voglio la macchina e andare in discoteca ,baciare tutti i ragazzi che voglio.Fare tardi e ubriacarmi.Invece mi mancano ancora863giorni al mio comple.oh che palle!oh!
Ven
26
Ott
2018
Prima di conoscermi...
Prima di conoscermi dici sempre che la tua vita era meravigliosa, che non ti mancava nulla, che eri felice, sereno e soddisfatto...si certo...
Prima di conoscermi, hai sputtanato 5.000 euro in alcol e serate, tornavi a case ubriaco ogni sera, eri nervoso ed irascibile, usavi una poveretta innamorata di te come giocattolo sessuale ed eri talmente stupido da non sapere come chiudere questa relazione perché "Poverina, è una mia cara amica, non voglio che soffra!", dello stipendio ti rimaneva 0 in tasca a fine mese, mangiavi solo cibo in scatola o precotto, insomma, stavi una favola...
Poi hai conosciuto me, ti sei perso in un'altro mondo, dopo 4 mesi mi hai detto che volevi un figlio, accontentato, quando ha compiuto 1 anno hai voluto il secondo, accontento, abbiamo 1 bella casa e 2 macchine, non navighiamo nell'oro, ma non stiamo neanche male.Qualche mese fa ti ho chiesto di farmi avere il numero di una persona per lavoricchiare e tirare su 2 soldi in più, ti sei rifiutato e ti sei incazzato, oggi te ne esci col fatto che ti ho rovinato la vita e che 2 soldi in più in casa male non facevano, ma brutto cretino, adesso sono di nuovo incinta che cazzo pretendi che faccia ADESSO??? È facile rinfacciarmi tutto, come se non facessi niente, come se in questi anni non avessi fatto niente!
Rivuoi la tua splendida vita di prima? Vai, un calcio nel culo e vai, tra qualche anno potrò dire ai bambini che papà ha preferito diventare un'alcolizzato piuttosto che diventare un'adulto!
Uomini crescete, a 40 anni non siete più dei ragazzini da serate alcoliche con gli amici, imparate a diventare grandi ed ad apprezzare le cose belle che la vita vi da, non soffermatevi sui momenti più bui facendoli diventare il centro della vostra vita e smettetela di rimpiangere i "bei vecchi tempi" che forse così belli e perfetti non erano!
Gio
14
Giu
2018
Ho attacchi di panico per un cucciolo
Sembra ridicolo, ma è vero. Ho questo cucciolo di 2 mesi e mezzo da esattamente una settimana e in alcuni momenti della giornata, (specialmente la mattina) ho attacchi di panico in cui provo un vero e proprio rifiuto verso il cane: in questi momenti mi basta guardarlo o sapere che gli devo dare da mangiare e portarlo sotto per stare male. Poi non faccio altro che piangere e pensare "basta non ce la faccio" o "lo voglio riportare indietro" o anche peggio.
Ho paura di sbagliare nella sua crescita, che gli succeda qualcosa, che distrugga la casa.. Mi dispiace molto perché ho desiderato per tutta la mia vita questo cane, mi ero preparata benissimo al suo arrivo (leggendo libri su libri sull'educazione ecc.) e stavo anche male perche i miei dicevano di no.. Mentre adesso che ce l'ho mi sembra quasi peggiorata la situazione e mi sento in colpa per aver convinto i miei.
Poi ci sono momenti in cui sto bene e lo accudisco con piacere, ma basta che il cane combini qualcosa tipo distrugge il recinto che gli abbiamo fatto, guaisce e io rientro nel panico.
Mar
23
Ago
2016
S.O.S-vi racconto la mia vita
Questo post è chilometrico, ma chiunque avesse la pazienza di leggerlo avrebbe tutta la mia gratitudine. Non sono mai riuscita a farmi capire da nessuno, e lo so che allora è un po' stupido riversare la propria sofferenza in internet...ma il sito dice "sfoghiamoci" e allora io lo faccio in grande, no?
Sono nata da una madre e un padre che all’epoca avevano rispettivamente 39 e 54 anni. Lei con la terza media, proveniente da una famiglia povera del Veneto e con alle spalle gravi abusi fisici e psicologici da parte di mio nonno materno su tutto il suo nucleo famigliare. Mio padre lombardo DOC, proveniente da un paesino bergamasco dell’anteguerra e orfano a pochi anni di mio nonno paterno; passato per la seconda guerra mondiale nei primi anni della sua infanzia dato che è nato nel 1938. Queste condizioni sfavorevoli di vita li hanno portati a essere persone problematiche: ansiosi, angoscianti, freddi, sfiduciati e degli incompetenti emotivi totali. Mio padre non ha mai fatto carezze, dato baci o scherzato su qualcosa, non ha mai fatto un regalo se non precedentemente concordato; mia madre faceva qualche carezza, ma era sempre cupa e vittimistica, e passava il tempo a lavorare o andare a messa e confessarsi, dato che era cattolica estremista.
Nonostante ciò hanno fatto subito un figlio quando si sono conosciuti (mia madre aveva 19 anni…), poi per vent’anni basta, niente più figli, finchè alla soglia della menopausa precoce di mia madre, in quello che mi hanno detto essere stato l’ULTIMO dei loro tristi rapporti sessuali, sono stata concepita per errore.
La prima accoglienza che ho ricevuto in questo mondo, la prima emozione che ho sentito, anziché la classica gioia di due persone che stanno per diventare genitori, sono state la paura terribile di mia madre e la proposta di mio padre di abortire. E il fatto che lei abbia voluto tenermi solo per fare un dispetto a mio padre e perché aveva paura di andare all’inferno se si fosse presa delle libertà col suo embrione… non è di grande consolazione.
Poi se ne sono fatti una ragione e si sono buttati nell’impresa di crescere un altro bambino cadutogli fra capo e collo, ma intanto il danno era già fatto. Da che sono venuta al mondo, già dalla prima settimana in ospedale, mi sono rifiutata di mangiare. Ero deboluccia e non avevo la minima voglia di crescere come gli altri bambini, non passava più di un mese senza che mi venisse qualche malattia. Al nido e all’asilo piangevo e vomitavo tutte le mattine. Vivevo in simbiosi con mia madre, che mi “amava” ma al tempo stesso mi avvelenava col suo attaccamento perverso, con la sua ansia, con le sue paure irrisolte. Ora so che soffriva di depressione clinica e con tutta probabilità anche di psicosi, ma nemmeno questo è granchè consolante. All’epoca non lo sapevo e per me lei era una figura d’attaccamento mostruosa, una fonte di affetto tossica, da cui però dipendevo. Tutte le sere prima di dormire mi raccontava le atrocità che faceva mio nonno alla famiglia, mi faceva guardare i film horror, riteneva normale che io alla richiesta di disegnare “la mia famiglia” producessi una schiera di crocifissi.
Mio padre, invece, era ed è sempre stato assente. A volte provava a giocare con me, ma forse non ne aveva granchè voglia o si sentiva stanco e impacciato, perciò non ci si impegnava molto. Lavorava tutto il giorno, e anche mia madre ha ripreso a lavorare tutto il giorno quando io avevo pochi mesi. Sui suoi diari c’è scritto che ero una bambina buona, socievole, che non cercava granchè le coccole ma intanto saltava in braccio agli sconosciuti. Io aggiungo che già allora dimostravo di essere sveglia e intelligente, che ero curiosa di tutto e mi piaceva scoprire il mondo. Non ero granchè bella ed ero sotto gli standard di crescita normali, infatti credo che lo sviluppo dell’intelligenza sia più che altro una reazione al fatto di non essere ammirati per altre qualità come l’altezza o l’aspetto fisico. Non so se sia così per tutti, ma per me lo è stato di sicuro.
Cercavo in ogni possibile modo di essere amata, di ricevere quell’amore pulito e incondizionato che i bambini dovrebbero avere, e che io non ho mai conosciuto. L’amore che ricevevo era sempre legato a qualcosa che facevo o non facevo, mi veniva detto di darmi una calmata, di smetterla di piangere e star male, di star seduta e buona, di “mettermi nei panni di mia madre” ecc. Mio fratello, ormai grande, è uscito di casa quando io avevo 4 anni, enfatizzando la depressione e l’isteria di mia madre e inasprendo il clima famigliare.
La casa che ricordo è un appartamento che nessuno puliva, pieno di giochi e libri e quindi di stimoli cognitivi (non posso dire che i miei genitori me li abbiano mai fatti mancare), ma pieno anche di inquietudini e odio e vuoto di stimoli emotivi. Mentre io ero una bambina estremamente sensibile, che avrebbe preferito di gran lunga usare il canale emotivo e corporeo più che quello logico.
Appena ho imparato a parlare sono stata tirata in ballo nei litigi di coppia; appena ho avuto la schiena abbastanza dritta per reggermi su un seggiolino della bici sono stata sbolognata tutto il giorno all’asilo nido e poi all’asilo, e quindi fino a sera da mia nonna. Mi sentivo abbandonata e tradita, ma all’epoca queste emozioni non avevano questi nomi. Venivano fuori sotto forma di sintomi psicosomatici e di un senso di dolore e oppressione terribili, che mi facevano scoppiare a piangere disperatamente non appena qualcuno mi spaventava o mi criticava. Perché, pensavo, se non si accorgono nemmeno di me, se non conto abbastanza da valere un po’ del loro tempo, allora sicuramente sono io che ho qualcosa che non va.
Già allora avevo problemi coi coetanei. Da una parte ero un esserino giocoso ed espansivo, coinvolgevo tutti in giochi di ogni tipo e, devo dire, molto fantasiosi; dall’altra ero estremamente insicura e mi appiccicavo tutto il giorno alla porta a vetri per vedere se arrivava la mamma. Questo era dovuto al mio non sentirmi abbastanza amata, ma soprattutto al bisogno patologico che mia madre aveva instaurato nei miei confronti: mancandole il primo figlio e odiando il marito, io ero diventata il suo unico appoggio affettivo. E così si aggrappava a me, in un’età in cui se tiri troppo forte si spezzano le braccine e le mani. Non sono mai riuscita a reggere tutta la sua ombra, ma al contempo avevo un disperato bisogno di guarirla, volevo che stesse bene e che sorridesse, e che mi volesse bene… e nell’ideale di onnipotenza che hanno tutti i bambini, probabilmente mi ero messa in testa che era colpa mia se lei non stava bene, che se mi fossi comportata meglio o adeguata a ciò che mi chiedeva, allora avrei potuto operare il miracolo. Ovviamente non è stato così. Ma quella bambina di pochi anni crede ancora di poterlo fare, di essere la causa delle malattie mentali di una madre che a sua volta è stata maltrattata e abusata dalla famiglia.
Inevitabilmente, insieme alla voglia di prendermi cura di lei, in un’età inappropriata in cui avrei avuto io per prima bisogno di cure, è germogliato un senso potente di risentimento e di rabbia nei confronti di questa famiglia incompetente che mi lasciava maltrattare dalle suore (forse il termine corretto è abusare, dato che suor Giuliana mi portava in una stanza vuota, mi tirava giù i pantaloni e mi sculacciava per vari minuti sulla pelle nuda; oppure mi metteva al centro della classe e ordinava agli altri bambini di umiliarmi finchè non avessi smesso di piangere), che mi lasciava soffrire senza offrirmi un appoggio sicuro e fingeva di non vedere il mio dolore -o forse non lo vedeva davvero-, che mi diceva che il mio malessere era una sciocchezza, che mi faceva dubitare di me stessa e di ciò che avvertivo dentro di me (ancora adesso ho un grande bisogno che le persone mi credano quando gli dico le cose, tanto che mi sento in dovere di spergiurargliele anche quando sono vere e quindi sembra che io stia raccontando cavolate…), che non offriva nessun tipo di contenitore e di esempio per la mia personalità in formazione.
Credo sia per questo che dentro di me c’è sempre stato un lato libero, indipendente e selvaggio; e insieme un altro molto instabile e impaurito, tipico di chi non ha avuto delle fondamenta stabili all’inizio della sua vita. La terza cosa che è nata in me in quel periodo, oltre al desiderio di guarire la mia famiglia e all’odio, è il senso di colpa per non essere riuscita nel mio intento. E’ da lì che nasce la mia idea di essere sbagliata. Non sono riuscita a compiacere la mia famiglia abbastanza da farmi desiderare e amare… abbastanza da farmi quantomeno accettare per quello che sono… e quindi ne ho concluso che se nella mia vita qualcosa va male l'imputato sono sempre io.
Dopo l’asilo è arrivata la scuola. A scuola stavo bene. Facevo amicizia abbastanza facilmente, ero più sicura che all’asilo, mi piaceva studiare e mi stavano simpatiche le maestre. Le elementari sono state effettivamente il periodo più tranquillo della mia infanzia. Avevo dei momenti in cui ancora piangevo a dirotto o manifestavo un’insolita timidezza, però nei miei ricordi sono molti di più i momenti belli di quelli negativi. Il mio disagio si era momentaneamente addormentato e veniva fuori solo nei disegni e nelle tematiche macabre dei miei giochi. Il resto erano compiti, attività in classe, intervalli in giardino. Ero molto creativa, molto brava in tutte le materie (tranne educazione fisica, cosa comprensibile dato che la mia famiglia non ha mai considerato il corpo o l’ha mortificato, e mi diceva sempre di star seduta e non essere “irruenta”, anche se magari stavo facendo una semplice corsa per casa o al parco come fanno tutti i bambini…). Non sono sicura che siano nati qui i primi problemi di invidia dei miei compagni verso di me, ma probabilmente dalla quinta elementare ho iniziato a rendermi conto che io ero più avanti degli altri e che se “esageravo” nel mostrare la mia intelligenza loro ci rimanevano male e mi escludevano.
Questa cosa è invece esplosa alle medie, soprattutto gli ultimi due anni. Le medie sono state in assoluto il periodo peggiore della mia vita. Nei primi mesi no, non ancora, perchè ci dovevamo tutti ambientare e a me piaceva l’idea di studiare materie un po’ più “difficili”, anche se in classe quasi sempre mi annoiavo dato che la mia testa correva avanti e (senza falsa modestia) molte cose le sapevo già. All’inizio infatti alzavo la mano continuamente per rispondere alle domande, facevo temi lunghi e dettagliati, sproloquiavo di materie scientifiche e, a parte la solita ora di educazione fisica dove i miei coetanei si prendevano tutte le loro rivincite, ero la migliore della scuola.
E’ stato allora che i miei compagni hanno iniziato a odiarmi. Prima gli davo solo fastidio, col passare del tempo l’intera classe (tranne le mie uniche due amiche) ha deciso che era ora di mettermi un freno. Così tutti hanno iniziato col parlarmi alle spalle, poi in faccia apertamente; a prendermi in giro per qualunque cosa mi mettessi addosso o mi piacesse (poteva essere un libro, un astuccio, una felpa, una musica… qualunque cosa). Non mi invitavano più alle feste, e se io gli portavo comunque un regalo di compleanno loro lo buttavano nel cestino davanti a me; mi scrivevano offese sul banco, mi nascondevano le cose o le buttavano via, una volta sono tornata dall’ora di educazione fisica e ho visto che qualcuno mi aveva vomitato nello zaino. I maschi più violenti mi minacciavano anche fisicamente, chiedendomi se volessi botte, facendo cricca all’ingresso della scuola e spaventandomi quando uscivo. Fra loro e fra mia madre che mi ripeteva continuamente di quanta gente ci fosse nascosta dietro i cespugli pronta a saltarmi addosso, il semplice tragitto casa-scuola per me si trasformava in un bagno di paura.
Il risultato è che io mi sono isolata sempre di più e, come difesa, ho idealizzato la mia intelligenza. Mi ritenevo un essere superiore, troppo particolare per scendere a patti con gente del genere e col loro mondo fatto di parolacce, fotografie di attori, sputi, bigiate e minacce. La mia prima adolescenza è costellata di ricordi solitari, di me che mi chiudevo in classe a leggere anche quando c’era l’intervallo, di me da sola nella mia stanza che facevo i compiti e mi intrattenevo con le mie fantasie, di me che scrivevo e vincevo premi letterari e partecipavo a show televisivi, ma intanto non avevo praticamente nessuno con cui parlare senza essere giudicata, senza la preoccupazione di dover essere “simpatica, easy, una ragazzina come gli altri”.
Quello è anche il periodo in cui ho ricevuto un sacco di critiche sul fatto che ero troppo seria, che dovevo muovermi a farmi degli amici e uscire per fare “cose da ragazzi” con loro, che dovevo vestirmi da adolescente e ascoltare musica da adolescenti e -per piacere!- non eccellere in ogni cosa, altrimenti tutti mi avrebbero odiato a morte!
E io invece, col carattere guerriero che ho, anche se dentro ero spezzata in due e mi sentivo triste come non so cosa, ho perseverato nel prendere tutti voti massimi, nell’ascoltare la musica che volevo e nel vestirmi come cavolo mi pareva. Era quel meraviglioso periodo in cui non accettavo di scendere a patti con le critiche. Non mi scivolavano addosso: le prendevo tutte in pancia come delle frecce e mi ferivano tantissimo, ma quantomeno non gli sottostavo. In quel periodo ho iniziato ad andare dalla psicologa, perché non sapevo dove sbattere la testa e mi sentivo un alieno totale rispetto al mondo che mi circondava.
A scuola era uno schifo, tornavo a casa e trovavo una situazione sempre più degenerata, con due persone ormai quasi estranee che si urlavano contro e mi coinvogevano nei loro meccanismi malati; con mio fratello distante e con un figlio da crescere, un fratello a cui non veniva detto mai niente su quello che stava succedendo in casa; senza un vero amico se non quelli che stavano dentro la mia testa e senza nessuno che mi desse un esempio o un modello da seguire.
La psicologa è stata una benedizione per me, e probabilmente grazie a lei ho imparato ad avere fiducia nella psicologia. Mi ha aiutato a finire le medie senza rimanerci secca, anche quando i miei compagni sono passati dalle parole ai fatti e, l’ultimo giorno di scuola, mi hanno lanciato un banco addosso. Anche quando per urlare il mio odio ai miei genitori e al mondo ho bevuto un flacone di detersivo e sono finita in ospedale. Quando finalmente è passato quel periodo, ho fatto un anno di liceo classico, buttandomi nello studio in un modo talmente maniacale che sono crollata appena finito un semestre. La situazione a casa era sempre peggio. Litigavamo tutti con tutti, tutti i giorni. Mia madre faceva gesti teatrali come inseguirmi con un martello o lanciare oggetti per terra, mio padre faceva la “roccia” e la ignorava, facendole venir voglia di strillargli dietro ancora di più per smuoverlo e fargli dire qualcosa (un comportamento che purtroppo capisco, dato che lo sto attuando pari pari a mia volta…).
Io mi chiudevo nella mia camera e scrivevo. Nell’estate tra le medie e il liceo ho scritto il mio primo romanzo, senza dire niente a nessuno. I miei genitori non hanno saputo niente, se non quando un editore l'ha pubblicato a proprie spese tre anni dopo… quando l’ho finito ho brindato da sola con me stessa, in cucina, nel buio della notte. E' stato il momento più felice della mia vita.
Mi ricordo tantissimo, ma proprio sulla pelle, quanto soffrivo in quel periodo a causa della mia età. Nessuno mi dava retta perché dicevano che ero troppo giovane, ero minorenne e quindi per lo Stato non esistevo e non potevo firmare da nessuna parte, quando scrivevo su internet mi scambiavano per un troll che si “spacciava per una ragazzina”. Mi sono sentita dire che le mie poesie erano troppo complicate e troppo tristi per una della mia età, che le femmine non devono scrivere cose così paurose o violente, che sembravo depressa o autistica, che mi dovevo vivere la mia vita e imparare a godermela. Tutto questo ovviamente detto da gente che non aveva la minima idea di quanto fosse vasta la gamma delle emozioni che provavo, di quanto fossi sensibile e di come godessi di cose che loro nemmeno capivano, come l’estasi della bellezza di una musica, trovare un buon libro in biblioteca, stare nella natura che mi è sempre piaciuta da morire, stare coi miei due amici a PARLARE di noi stessi e condividere le nostre giornate e il nostro affetto, anziché a ubriacarci e drogarci.
Mi piaceva viaggiare, mi piaceva vedere i quadri e i musei, adoravo leggere e giocavo ai videogiochi (di tutti i tipi, dai medievali e fantasy al simulatore d’aerei) come se non ci fosse stato un domani. A guardarmi da fuori adesso, a distanza di tempo, avrei detto a me stessa che ero una ragazza assolutamente normale, che magari si vestiva con tute larghe o maglie etniche anziché stivaletti e calzamaglie, che traeva nutrimento e vita da cose più “mature”, che era un po’ taciturna ma quando si trovava nell’ambiente che le piaceva allora si trasformava nella più solare delle persone.
Ma allora ero davvero convinta di essere diversa, e dannata. Non sapevo cosa fare per piacere di più agli altri, non sopportavo più di vivere in casa coi miei genitori, non sopportavo la mia vita. Ho iniziato un altro periodo di protesta verso la mia famiglia, con un comportamento anoressico che in realtà era un vero e proprio sciopero della fame, in cui mi sono ridotta a poco più di 30 kg e sono finita di nuovo in ospedale con la chiara intenzione di morirci.
Ma non è successo. In ospedale è scattato qualcosa e ho ripreso a mangiare. Sono andata a casa e ho espresso chiaramente ai miei che me ne volevo andare. Ho preso possesso dei soldi che mi aveva lasciato mia nonna e a 16 anni ho comprato una piccola casa, la MIA casa. Ho trovato lavoro in panificio, cosa che mi costringeva ad alzarmi all’alba e spararmi tre ore complessive di treno e pullman al giorno, ma ero felice. Vivevo come volevo io, mangiavo quello che mi piaceva (ero vegetariana da un paio d’anni e mia madre era sempre stata contraria a questa scelta), potevo usare i soldi che guadagnavo per tutto quello che mi serviva. I primi tempi ho avuto paura di non farcela, mi sono scontrata con le bollette da pagare e il fatto che io non potessi avere un conto in banca poiché minorenne; con la solitudine di una casa vuota, col fatto che ovviamente la gente non si risparmiava i commenti sul fatto che solo una disadattata o una sfigata va a vivere da sola a quell’età…
Dopo un anno e mezzo di quella vita, ho deciso che lavorare andava bene, ma forse era meglio anche finire le superiori e prendermi un diploma. Così ho messo in pausa il lavoro serio e ho fatto solo lavoretti saltuari, mentre recuperavo gli anni come privatista. E’ stato davvero, davvero difficile. Ero stanca morta, avevo pochi soldi, ma ce l’ho fatta comunque. Sono uscita con 97 su 100.
Il diploma mi aveva caricato molto. Ormai mi ero stabilizzata in casa mia, stando separata dai miei genitori riuscivo a parlarci di più, avevo deciso che avrei provato il test di medicina e che intanto per quell’estate avrei fatto una festa e viaggiato. La festa del diploma è stato l’ultimo momento di pace che ricordo. Eravamo tutti nel giardino a casa di mia madre, con fiori e candele, un sacco di cibo e persino un illusionista che avevo invitato per intrattenere gli ospiti. Ho delle foto di tutti noi con corone di foglie in testa e dei bellissimi sorrisi, sorrisi che non ho mai visto nella mia famiglia.
E poi la mazzata, perché quell’anno del cazzo era il 2011. L’anno in cui ho fallito il test di medicina per un punto e mezzo. L’anno in cui non sapendo cosa fare come università, anche perché quasi tutte erano col test di ingresso e ormai le date erano passate, ho deciso di trasferirmi vicino a Bologna per fare erboristeria e ho affittato la mia preziosa casa a un ragazzo che si è rivelato essere un delinquente. L’anno in cui la mia famiglia mi ha taciuto il tumore mortale di mia madre, per abbastanza tempo da farmi portare tutte le mie cose a centinaia di chilometri da Milano per poi farmi cadere dal pero in una serata di settembre, quando l’ho trovata in bagno che vomitava feci e siamo corsi immediatamente in ospedale, e allora sono stati costretti a dirmi cosa stava succedendo.
Immaginatevi me, in una casa in affitto in Emilia-Romagna, che inizio un’università nuova senza il minimo appoggio morale di nessuno, e intanto provo a cercare lavoro a Bologna, e nel mentre vengo a sapere che mia madre sta morendo e che il mio inquilino, che non mi paga e mi sta sfasciando la casa, va sfrattato con una procedura legale lunga e costosa.
Le uniche cose che mi hanno salvato in quel periodo sono state la scrittura e la spiritualità. Frequentavo un gruppo neopagano, una cosa che mi ha arricchito molto e che mi ha aiutato a pensare alla morte come una porta che da un’esistenza conduce a un’altra. Che mi ha aiutato a vedere un po’ di magia e di sacro in ogni angolo del mondo e in ogni stadio della vita umana, anche quelli più difficili.
Mia madre è morta quasi subito, il giorno di Natale del 2011. Sono stata io la prima a trovarla morta. Già da un bel po’ le somministravano morfina e quindi non si rendeva conto delle cose, ma ricordo che quella mattina aveva gli occhi perfettamente assennati, anche se immobili, e un’unica lacrima che le scendeva da una palpebra. Sono sicura che si sia resa conto di cosa stava capitando. Proprio il giorno dopo è morto anche il mio coniglietto, dopo dieci anni di onorata vita. Ho sempre detto che me li immagino insieme nell’aldilà, con lei che cerca il trifoglio per il suo piccolo amico. Finalmente libera. Finalmente sana. Finalmente se stessa.
Io ho retto il colpo abbastanza bene, anche se pure a distanza di anni continuo a piangere. Credo invece che mio fratello non si sia più ripreso. Nella mia famiglia le donne non sono mai state molto considerate e il loro “posto” è sempre stato la pelatura delle patate in cucina, ma sotto sotto tutti i maschilisti venerano la propria madre e, in sua mancanza, affibbiano le sue competenze (anche affettive) alla diretta erede. Cioè io. L’ultima donna rimasta fra i parenti stretti.
Questo è un ruolo che io ho rifiutato subito. Secondo i fratelli di mia madre, io avrei dovuto prendermi cura di loro come faceva lei, anche se ormai sono belli che adulti; secondo mio fratello, io avrei dovuto fare la badante di mio padre e prendermi cura di lui ora che lei non c’era più, nonostante loro due si fossero detestati apertamente e negli ultimi mesi prima che lei si ammalasse avessero (finalmente!) scelto di vivere separati anche se la religione cattolica vieta il divorzio.
Io ho detto a tutti che nessuna di queste “mansioni” mi passava nemmeno per la testa.
Sono tornata a Milano, sentendomi dire da mio fratello che ero una pazza che non finiva mai quello che portava a termine (eh sì, contorto il ragazzo… da una parte voleva che io mi prendessi cura di mio padre, ma dall’altra non gli stava bene che io tornassi a Milano. Bah). Ho trovato un lavoro che pagava bene e ho preso una casa in affitto in città, nel mentre che sfrattavo l’inquilino imbecille.
E intanto ho provato, per la seconda volta, il test di medicina. Però stavolta ho voluto andare sul sicuro e ho fatto anche quelli di professioni sanitarie e di psicologia, sperando che almeno in uno sarei entrata…medicina no. Inarrivabile. Ma sono entrata negli altri due, fisioterapia e psicologia. E ho scelto psicologia. Così sono passati i miei primi due anni di università, un anno con un po’ di lavoro, poi un periodo senza lavoro, poi un periodo massacrante di lavoro in un ristorante in cui ho perso un sacco di esami. La vita non andava bene, anche se avevo pubblicato il mio secondo romanzo, facevo teatro ed ero riuscita a riprendere possesso della mia casa. Non ero riuscita a farmi un solo amico all’università, odiavo Milano e abitavo comunque a più di un’ora di treno+pullman dalla città. Mi sentivo isolata e molto, molto sola.
E’ stato in quel periodo che ho conosciuto su internet un’amica torinese. Siamo entrate subito in sintonia, eravamo molto curiose di conoscerci e scambiare esperienze. Lei era una persona un po’ triste e anche lei con una famiglia del cavolo, ma abbiamo allacciato subito una di quelle amicizie intime, brucianti, praticamente da sorelle. Dunque mi sono trasferita a Torino a finire la triennale, sia perché avevo sentito parlare bene dell’università di psicologia e avevo l’intenzione di farci la magistrale, sia per stare vicino a lei. Ho fatto abbastanza fatica coi documenti per l’università, ho fatto una grande fatica a dirlo a mio padre e a mio fratello.
Entrambi erano assolutamente scettici sul fatto che io finissi l’università, mio fratello mi ha proprio detto in faccia che tanto sarei tornata a Milano dopo qualche mese con la coda fra le gambe, proprio com’era successo con Bologna. Ma non l’ho fatto. Ho affittato prima una mansarda in centro e poi una casa più grande, dove sto scrivendo in questo momento. Ho incontrato finalmente delle amiche serie che facevano psicologia come me, e con loro posso dire di aver vissuto veramente i momenti di apprensione, follia e giovinezza della vita universitaria. Penso che loro, in particolare una, siano state le uniche persone al mondo ad accettarmi veramente, con tutti i miei casini e il mio passato problematico, senza volermi aggiustare, cambiare o distruggere.
L’anno scorso mi sono messa a dare esami a raffica per recuperare il tempo perso e riuscire a laurearmi. Ho ottenuto il mio risultato, mi sono laureata in corso e con un voto più che dignitoso. Ma intanto mi sono lasciata indietro un sacco di momenti di vita, di rapporti umani non vissuti, di giorni sereni che ho riempito solo con ansia e stress.
Mio padre e mio fratello hanno reagito alla mia laurea con un “ah ok, brava…”. Niente regalo, niente festa. Ovviamente. Non so bene per cosa mi voglia punire mio fratello, so solo che da quando sono a Torino non è mai venuto a trovarmi e non mi parla più nemmeno al telefono. E i suoi figli non vogliono vedermi. Quelle rare volte che ci vediamo dicono che io sono la zia “pazza e strana”.
E mio padre…ho cercato con tutta me stessa di aggiustare le cose, parlarci, provarci, risvegliare UN MINIMO di calore in lui. Ma non serve a niente. Lo odio. Lo odio in un modo antico, potente, vulcanico che è molto difficile da controllare. Non riesco a starci insieme per più di un giorno senza avere il desiderio di spaccargli la faccia, di ucciderlo pur di rompere quel cazzo di guscio che si è costruito attorno e non lascia uscire né entrare niente, né il calore di un qualsiasi rapporto umano, né le parole, né le emozioni o la vita.
Sto andando nuovamente da uno psicologo da un anno, ma non sento molti miglioramenti e fra noi c’è tantissima distanza. Lo vedo come un rapporto professionale, ma empatico solo a tratti. E sono cambiata, tanto cambiata. L’amicizia con la mia amica torinese si è arrestata quando ho capito che mi faceva più male che bene, perché non era quello che era stato all’inizio: era una relazione a senso unico in cui lei stava sempre male e voleva che io mi prendessi cura di lei (un po’ come mia madre insomma).
Per il resto sono una creatura morta. Ho buttato via i mei vestiti etnici perché ero stufa di come mi guardava la gente quando li mettevo e perché mi ricordavano tutte le prese in giro delle medie, respiro aria orribile, dopo ben 10 anni di felice vegetarianesimo ho ripreso a mangiare la carne solo per fermare quel fiume di gente che ogni volta che mi sedevo a tavola mi faceva il processo sulle carote che soffrono, mi tempestava di domande che non erano curiosità ma frecciate, e augurava il cancro a me e ai miei poveri figli (quali figli poi non si sa, dato che non ne ho e non ne voglio…); che mi dava dell’idiota, della malata di testa, della persona mentalmente chiusa o della puritana.
Ho iniziato a bere e ubriacarmi per lo stesso motivo. Se prima bevevo una birra artigianale o un liquorino ogni tanto perché gradivo il gusto che avevano, l’anno scorso ho iniziato a mandar giù qualunque roba alcolica e ubriacarmi fradicia, girovagando per serate e locali che odiavo, solo perché così sono “come tutti gli altri ragazzi giovani”.
Ho dimenticato completamente la spiritualità, non scrivo più da un anno, non promuovo i miei libri e le mie capacità teatrali non sono state più coltivate. Sto diventando un’ombra, triste, aggressiva, piatta come il resto delle teste di minchia che popolano questa nazione. Non riesco a capacitarmi che qualcuno mi voglia bene e infatti do ingiustamente addosso anche alle poche persone che me lo dimostrano, facendo gaffe bestiali e buttando su di loro i miei sbalzi di umore.
Ho 24 anni e mi sento vecchia e stanca, non ne posso più di dover curare la casa, di dover cercare lavoro mentre studio, di dover fare l’adulta e poi passare subito in modalità ragazzina scialla se no ai miei coetanei non piaccio. Mi sento male perché sono l’unica della mia età a non pensare sempre a scopare, non ho un ragazzo o una ragazza, ho una sessualità tutta particolare e non ho ancora trovato nessun partner che la capisca o che veramente sia in grado di volermi bene e instaurare con me una relazione paritaria. Ho bisogno d'affetto come tutti gli altri, anche se sono indipendente e matura, ma i miei coetanei (diciamo pure anche quelli fino a 35) sono dei ragazzini mentalmente limitati, e se sono più in là con l'età mi vedono solo come una dolce "bambina" da fottersi- scusate il francese-.
E io, in sostanza, non so più chi cazzo sono.
Ho scritto questo bel papiro perché voglio urlare che le cose stanno così. CHE IO STO MALE, e non è una “boiata”, un “lamentarsi a vuoto”, è un dolore atroce che probabilmente neanche conoscete e io non permetto più a nessuno di sminuirlo dicendo che “boh, forse un giorno passerà, sei così giooovaneeee”. E’ tutta la vita che sto male e io non ne posso più. Non so cosa fare, veramente certe volte non vedo via d'uscita e vorrei soltanto addormentarmi dolcemente.
Se sei arrivata/o fino a qui, hai veramente una grande pazienza e probabilmente la curiosità o la voglia di ascoltare e capire. Magari dimmi cosa ne pensi di tutto ciò, che cosa faresti tu… anche solo una riga o due. Mi aiuterebbe davvero, davvero tantissimo in questo momento buio.
Grazie mille...
Mar
06
Gen
2015
e se andassi a vivere da sola?
sto valutando l'idea di andare a vivere da sola. Sto benissimo con me stessa, non sono una di quelle che si dispera. Alla fine posso organizzare al meglio i miei impegni, certo magari sarà dura perchè non avrò il pasto pronto come a casa con mamma, ma sono sicura che con un pò di impegno e organizzazione posso farcela! L'unico "problema" sarebbe la notte perchè io sono una di quelle che quando sente un rumore esclama: oh, hai sentito? cosa è stato? magari è un ladro..e quindi con passo selvaggio vado a controllare. Il che non è male, almeno non mi cago sotto, ma se ci fosse effettivamente un pericolo e se strillo chi cazzo mi sente? Nessuno potrebbe aiutarmi, a meno che non abbia il vicino che sta con la testa attaccata al muro ad origliare 24 h su 24. Dubito. Potrei comprarmi un cane così mi fa compagnia, ho sempre voluto un cane ma qui mia mamma non lo vuole perchè dice che i cani sporcano. Fissata. Potrei fare un corso di autodifesa personale, così se un maniaco mi aggredisce so un minimo difendermi. Che palle perchè vivamo in un mondo di merda pieno di delinquenti? Pensiamo ai vantaggi: posso chiamare il moroso quando voglio, possiamo fare sesso in libertà senza avere l'angoscia che arrivino i miei, lui può fermarsi a dormire da me (a patto che non russi come un trattore) senza pensare cosa potrebbero pensare i miei se lui dorme nel mio letto. Via paranoie. Potrei cucinare quel cavolo che voglio, attaccare il forno senza sentirmi dire con quella vocina fastidiosa: cosa stai facendo? perchè attacchi il forno? non lo sai che consuma? Potrei lavare il bagno e non dover urlare: non sporcate il bagno! perchè tanto sono solo io che lo sporco. Lati negativi: se appunto ho la febbre, sto male ecc..non reffo per alzarmi e farmi da mangiare non ho nessuno che mi può dare una mano, non sono una di quelle che va a mangiare dalla mamma o chiama la mamma per ogni cazzata. No, se abito da sola mi arrangio. Certo non è che sparisco dalla vita dei miei genitori, sarebbe impossibile mia mamma angosciata com'è mi chiederebbe: va tutto bene? ma sei sicura? proprio sicura sicura? si mamma va tutto bene. insomma la chiamata del va tutto bene ci sarebbe sempre. Potrei andarli a trovare e portargli il mio super dolce calorico e potrei offendermi qualora decidessero di non mangiarlo. Poi se ho un cane e fa i cuccioli do un cucciolo a mia mamma, così la sentirei strillare fin casa mia e potrei dire: ah senti che bene che si sta qui!! Che palle tutte fantasie. Mi piacerebbe andare a vivere con un'amica, se solo ne avessi una fatta come me. Non dico che vorrei la mia copia spiaccicata, sarebbe un disastro. Ma una con il carattere affine al mio o con la quale stare bene senza stufarsi dopo una giornata passata insieme. Perchè la gente non la conosci se non stai attaccata, questo lo so per esperienza. E il moroso? Ma dai io non voglio che lui si senta costretto a farmi compagnia. L'andare a vivere insieme è una cosa estremamente importante e una persona deve sentirselo dentro. Se capiterà bene, non voglio fare pietà a nessuno. Sta attraversando un momento molto importante della sua carriera lavorativa e lo vedo così elettrizzato! Potrebbe venire da me quando vuole..fermarsi un pò anche se non avrà tempo perchè abbiamo orari diversi. Insomma va così. Mi è passata per la testa quest'idea che al 90 % non si concretizzerà..ma intanto un pensierino ce l'ho fatto.
Gio
01
Nov
2012
Riflessione
Questo è uno sfogo che veramente faccio di tutto cuore e con tutta l'anima, anche se, leggendolo, non ho idea di cosa potreste pensare. Ho 22 anni e studio all'università. Studio una cosa che mi piace e che amo, e, anche se c'è crisi, cerco di convincermi che ce la posso fare; ho imparato a convivere con l'idea della crisi e tento di non perdere mai la speranza. A volte quella è l'unica cosa che ci rimane, ed è troppo preziosa per poterne fare a meno. Ho una bella famiglia, una madre che mi ha sempre ascoltata e sostenuta, un papà giovanile, un fratello con un carattere del tutto diverso dal mio, ma con il quale c'è un rapporto meraviglioso. Ho dei nonni molto saggi. Ho delle amiche che sono un po' tutte dei casi umani, sì, d'accordo, ma siamo cresciute insieme e ci vogliamo bene, ci aiutiamo e ci sosteniamo come ci è possibile, anche se ci sono momenti di maretta.
Una volta, da bambina, e anche da adolescente, credevo fosse possibile stendere davanti a me un universo di cose che fanno parte della mia vita, e tenerlo così com'è ora. Poi ovvio, ho imparato che la vita si muove sempre e non si ferma mai.
Un anno fa, la prima vera delusione amorosa della mia vita, ovverosia il fallimento di una storia d'amore di cinque anni, inziata nell'adolescenza e destinata (ora l'ho capito) a finire per forza di cose. Ha avuto il pregio di insegnarmi come si ama, ma anche come non si deve amare. Ci sono cresciuta dentro. Sono stata io a lasciarlo: anche se sapevo che l'amore era finito da un pezzo, ho dovuto fare forza su me stessa e prendere questa decisione per entrambi. Il seguito è la più bella delle fiabe: un ragazzo simile a me in tante cose, con il quale ho instaurato un rapporto più maturo, in cui ognuno dei due ha i suoi spazi. Questo mi ha sempre fatta stare bene, ma adesso ho la strana sensazione che, vuoi per il nostro rapporto, vuoi per tutto il resto, la mia vita sia ad un punto di svolta.
Non fraintendetemi, lui è meraviglioso: attento quanto può esserlo un uomo (la sensibilità femminile ce l'hanno davvero solo i gay), premuroso, presente. Mi aiuta con lo studio, sta a sentire i miei sfoghi, litighiamo pochissimo e non si alza mai la voce. Mi rispetta molto e, senza peccare di presunzione, posso dire di avere un posto importante nella sua vita. Unico difetto: la paura che il rapporto finisca, la paura di perdermi in tutti i sensi, che forse lo frena in alcune cose che sarebbero più che naturali in una relazione. Posso capirlo per due ragioni: per prima cosa, perchè siamo giovani. Oggi quella dei 22-23 anni è un'età di giovinezza estrema, anche se vissuta con responsabilità e con serietà. Negli anni, si sa, cosa può succedere? Di tutto. Inoltre, per lui è la prima storia veramente lunga, perciò ho molta pazienza, che sembra, comunque, essere ben riposta. Preciso che, per scelta di entrambi, i rapporti con le rispettive famiglie sono cordiali, educati, cortesi, amichevoli, ma non le mettiamo in mezzo, perchè sappiamo entrambi per mia esperienza (piuttosto limitata, sono sempre stata contraria a farlo) quanto sia distruttivo nel rapporto fra due persone.
Io condivido un atteggiamento di prudenza come questo, perchè sono già passata attraverso una grossa delusione. Qual è allora il problema? Il problema, miei cari, è che sono una stupida insicura cronica. A volte temo che questa storia, solo per il semplice fatto di non essere la storia appiccicosa e da mattone che hanno tante ragazze che conosco (e che sarà pure bellissima, per carità), non abbia abbastanza solidità. E ovviamente ci sta anche che non debba averne "troppa", perchè siamo giovani e studiamo e tutto il resto. Confrontandomi, però, mi pare sempre che ci sia una diversità, tra il nostro rapporto e il modo in cui tutti intendono un rapporto, che gli altri non potranno mai capire, e questo mi fa sentire esclusa. Mi vengono i dubbi, comincio a temere che sia una mancanza di "impegno" da parte sua, dimenticando che abbiamo stabilito INSIEME che per noi due il concetto di impegno ha un altro significato, profondo, maturo e indipendente dagli altri e da ciò che possono dire o fare, e che si esplica ogni giorno. Ho paura di fossilizzarmi, col tempo, su questo aspetto e su quanto io sia insicura e sciocca, e di dimenticarmi che siamo arrivati ad innamorarci e a volerci bene nel tempo, sostenendoci e aiutandoci, vivendo insieme dei bellissimi momenti. Tendo a chiedermi chi abbia ragione, se io e lui o il resto del mondo. E so quanto questo sia immaturo. Se noi due stiamo bene insieme, cosa conta tutto il resto? O sono io, assurdamente e inconsciamente, a non essere tanto convinta? (Eccola, l'insicura che dubita di sè stessa... o.O).
Non ho scritto questo post per autocompiangermi. Non ne ho bisogno, in fondo. L'ho scritto per fare un po' di ordine dentro di me, per ricordarmi che, come mi disse tanto tempo fa, quando ero bambina, una persona molto cara, devo diventare tanto tanto tanto forte e dimostrare a me stessa e al resto del mondo di aver seppellito le mie insicurezze dentro qualche angolo buio della mia memoria. Lì devono restare in libertà vigilata, col permesso di uscire ogni tanto a prendere aria e a tormentarmi per non più di tre secondi. So che ci saranno sempre, fanno parte di me e di un passato che, senza essere troppo doloroso, senza che chi legge immagini traumi assurdi, mi ha spesso ferita e fatta sentire, sempre, diversa ed esclusa dal resto del mondo.
Leggo qui tante storie di persone che vivono situazioni sentimentali difficili, tristi, incasinate. In alcune mi riconosco, riconosco i miei vecchi errori, e a volte commento e lascio una parola. Altre volte preferisco tacere, perchè so che la risposta a certe domande non la si vuole mai sentire da labbra che non siano le proprie, e la si trova sempre e solo dentro sè stessi. Oggi vi chiedo di commentare, se volete, di condividere con me un pensiero, un consiglio, un ricordo, un qualcosa che risponda alla grande domanda:
MA CHI CE LO FA FARE DI ESSERE TANTO INSICURI?